uno dei ragazzi del “Casermone” ricorda don Luigi

uno dei ragazzi del “Casermone” ricorda don Luigi

Questo ricordo di don Luigi è ripreso dal sito dell'Opera Diocesana di Vercelli. L'autore, Luciano Gennari, era poco più che adolescente quando don Luigi giunse al casermone dell'Aravecchia per la prima volta.

Il Dono

Molte volte mi sono chiesto cosa facesse di Luigi un essere speciale.

Non erano certo le sue conoscenze umani­stico/scientifiche o la sua capacità dialettica che, seppur vivace e stimolante, non lo poneva nella categoria degli affabulatori né tantomeno il suo background culturale.

Non che le mie capacità di giudizio all’epoca fos­sero particolarmente sviluppate, era però evidente che la sua vera dimensione andava aldilà di questi aspetti che per quanto importanti non erano in lui gli elementi caratterizzanti.

All’inizio furono la sua umanità unitamente all’esperienza missionaria, la proiezione delle diapositive del lebbrosario, la sua stessa immagine lasciava trasparire qualcosa di indefinibile, la luce nei suoi occhi e l’afflato che rendeva ogni suo gesto come segnato da un suono coinvolgente, la sua voce, la pacatezza con la quale pronunciava ogni parola nella celebra­zione dell’eucarestia o nelle sue omelie. La sua ricerca del significato più profondo di ogni sin­gola parola compresi gli aspetti etimologici ed esegetici stimolavano in tutti noi il desiderio di capire e condividere ciò che quelle parole espri­mevano al di là del contesto: la misera chiesa dell’Aravecchia o il tavolo affollato della sua casa a conclusione di una cena non certo opulenta, ma comunque ricca della generosità di tutti coloro da lui coinvolti in un gesto di appagante altrui­smo.

Col tempo crebbero i capelli e la barba, il suo aspetto cominciò ad assumere una importanza non secondaria nell’evocare quelle immagini tanto in­sistentemente rappresentate della chiesa delle origini, in un tempo così fortemente segnato dal nuovo corso che la chiesa aveva intrapreso con il concilio vaticano II anche questo contribuiva a scuotere gli animi sopiti e poco inclini alla spi­ritualità di chi, fino ad allora non trovava niente di meglio da fare che passare il proprio tempo libero al bar o alla ricerca di svaghi anche innocenti ma che in nulla avrebbero potuto contri­buire a migliorare la realtà che li circondava.

E la realtà era un casermone fatiscente, non solo nell’aspetto estremamente indecoroso, era una ina­deguatezza frutto di anni, decenni, di mancanza di interventi di manutenzione da parte dell’amministrazione o anche solo di un minimo di impegno delle persone che la abitavano che risen­tivano a loro volta di questa inadeguatezza dando una rappresentazione di se stessi altrettanto fa­tiscente.

Don Luigi per passare dal dire al fare ci mise meno di una settimana e decine e decine di persone si trovarono a fare in meno di dieci giorni quello che non era stato fatto nei venticinque anni pre­cedenti: rifacimento di intonaci, ripulitura pro­fonda di calcinacci, gronde, tinteggiatura, puli­zia di ogni genere, un pulizia che si estendeva anche agli animi di tutti i soggetti coinvolti che cominciavano lentamente a sentirsi parte di qual­cosa.

Il risultato fu sconvolgente, non certo nella con­statazione di ciò che era stato realizzato: ove fosse stato deciso non avrebbe potuto realizzarsi diversamente, ciò che era sconvolgente era la con­statazione di come la sola forza della volontà po­tesse determinare un cambiamento così radicale in tutte le persone coinvolte.

Era stato il suo fare a dare a tutto una luce, un senso di identità che a differenza della politica  tendeva ad aggregare e non a disgregare e in quei tempi di così grandi contrapposizioni questo era un miracolo ante litteram.

Ma ancora l’interrogativo non trovava risposta: casa facesse di Luigi un essere speciale.

Dopo qualche mese dal suo insediamento al “Caser­mone” ci capitò di doverlo accompagnare a Curino dove risiedeva la sua famiglia.

Tra una raccolta di patate e un bagno rinfrescante nel torrente adiacente la tenuta, cominciammo a conoscere i membri della grande famiglia: papà Lu­dovico, mamma Elda la sorelle ed i fratelli, Adriana, Maria Teresa, Daniela, Giovanna, Pierino e Roberto e ancora, anche se non più tra di loro Giuseppina “Pinein” come amavano ricordarla perché purtroppo di Lei noi potemmo conoscere solo il ricordo e la commozione che in tutti loro quel ricordo scatenava.

Per Luigi la famiglia non era solo una risorsa, anche se in realtà lo era in modo a volte determi­nante, per Luigi era, parimente alla fede incrol­labile che sosteneva ogni sua parola e azione, un fine, un principio, uno scopo di vita cui trarre forza e determinazione nel suo incedere nel perse­guire ogni singola scelta che coinvolgesse una o tante delle persone che vedevano in Lui una possi­bilità di riscatto da un passato fatto di dolore e abbruttimento fisico e morale: Luigi era testimone vivente di questa dirompente realtà.

Luigi era riuscito a coniugare la cultura contadina con gli aspetti più profondi e pregnanti della chiesa delle origini.

L’argomento “famiglia” non era centrale e portante nelle sue omelie, il senso di unità, solidarietà e affidamento che viceversa trasparivano erano il senso che la famiglia gli aveva trasmesso e che dai suoi occhi traspariva.

Quello che Luigi ha costruito, altro non è che la riproduzione in scale sociale di quel modello che per lui era allora come sempre la sua famiglia.

Nessuna delle sue esperienze di vita lo ha visto solo: la sua famiglia lo ha sempre accompagnato e sostenuto in tutto dall’inizio alla fine: il forzato trasferimento di tutta la sua famiglia dal paese d’origine, Sala Baganza, in provincia di Parma, a Curino, i suoi tentativi di entrare in seminario prima a Parma successivamente dai Guanelliani, lo spostamento al seminario di Vercelli con un’età, ormai, pressoché proibitiva, la guerra dichiaratagli dalle alte gerarchie di curia sulla mancata padronanza del greco, gli interventi autorevoli che lo hanno provvidenzialmente esonerato da un tale, nel suo caso superfluo, onere, la missione in Brasile, l’incontro/scontro con Suor Silvia a Campogrande, il suo rientro da Lui non voluto in Italia, l’arrivo all’Aravecchia come viceparroco di Don Carlo Borghesani che gli lascerà la conduzione della parrocchia decidendo di intraprendere una sua strada indipendente, il vano tentativo di trasformare il “Casermone” nella sede della comunità, il ripiegare sulla realizzazione di una struttura nuova e alternativa: l’attuale sede, la creazione tanto osteggiata e inizialmente fallimentare delle cooperative per poter dare uno sbocco lavorativo ai suoi ragazzi, la creazione dei “Raggi di Sole” fonte di tanta gioia ma anche di tanto sconforto per le tante lotte intestine determinatesi, le accuse di fagocitazione economica del suo fare e ancora le mille battaglie che si è trovato a combattere in favore degli ultimi sempre affiancato da chi era ormai diventato parte di quella stessa famiglia che lo aveva generato e infine quasi alla vigilia della sua morte il dover pensare al dopo chiamando a sé il meglio delle donne e degli uomini che lo avevano accompagnato per tutta la sua esperienza di vita.

In Lui però era presente un dono, un mix genetico/cromosomico avrebbe detto un materialista come potevo essere io in quei tempi, sempre combattuto tra il pragmatismo dei vari Luigi Ciotti, Mauro Stragiotti e di chi come loro volgevano il loro sguardo alla creazione di strutture e sovrastrutture cui dare gambe e voce autonome, e la spiritualità e il misticismo di chi come Luigi era testimone di una scelta conseguente a un talento che gli era stato dato e che Lui sapeva mettere a frutto: Lui solo aveva questo talento e la sua, fino ad allora ancor breve esperienza di vita, non potevano giustificare altro che questo.

Nessun buon padre supererebbe un processo di beatificazione: i calci nel sedere, per usare un eufemismo, inflitti ai propri figli per inculcar loro l’importanza del rispetto delle regole, di fatto lo impedirebbe. Ma un buon padre è anche questo, un buon padre è severo nel giudicare le intemperanza dei suoi figli, un buon padre ama i propri figli e quindi è sempre pronto a perdonare e a dar loro un’altra opportunità “fino al disgusto di ricominciare, perché ogni volta è poi sempre lo stesso” dice il poeta.

Luigi era un buon padre, il migliore dei padri che un figlio potesse sperare di avere perché quella famiglia di cui si entrava a far parte quando si incontrava Luigi era ad immagine e somiglianza della sua famiglia, la migliore delle famiglie che un uomo potesse sperare di avere.

Ogni decisione che ha dovuto assumere, l’ha affrontata come avrebbe fatto un padre per i suoi figli quei figli che un padre ama e per i quali è disposto a dare la propria vita e quanti figli ha dovuto accompagnare nel loro ultimo viaggio  e quante madri e quanti padri e quante sorelle e fratelli perché questi sono i componenti di una famiglia della sua grande immensa famiglia.

Vercelli, 25 aprile 2015 – Luciano Gennari