Il ricordo di don Massimo Bracchi

don Massimo Bracchi ricorda don Luigi

Ripensando a don Luigi Longhi la memoria corre indietro nel tempo fino agli anni ’60, quando credo di averlo incontrato per la prima volta. Forse fu il 1° gennaio 1967, in occasione dell’ingresso in diocesi dell’Arcivescovo Albino Mensa. Certamente lui, come tutti i seminaristi, era presente ad accogliere il nuovo Pastore. Ma fu con l’avvio del seminario interdiocesano (Vercelli, Casale, Ivrea, con sede a Vercelli ed insegnanti delle tre diocesi) che si cominciò a studiare e a lavorare insieme. I ricordi sono sbiaditi ma “il Luigi”, come normalmente lo chiamavamo, frequentava i nostri corsi, pur essendo come “leva” un anno aventi a noi (infatti fu ordinato prima della nostra classe, composta allora di ben 9 seminaristi). Faticava a studiare, non avendo mai avuto occasione di dedicarsi allo studio.(E tra le tante cose buone fatte da Mons. Imberti ci fu quella di chiedere ai responsabili del seminario di allora che Luigi Longhi continuasse gli studi anche se doveva essere, secondo gli insegnanti, fermato. Il Signore gliene renda merito). Aveva cominciato presto a lavorare per contribuire al mantenimento di una famiglia numerosa, dove tutti avevano lavorato presto insieme a papà Ludovico e a mamma Elda. Dalla zona di Parma, da dove provenivano, si erano trasferiti a Curino, in una casa modesta ma grande abbastanza per tutti. Si era soliti concludere ogni anno scolastico con una Messa e una cena a casa di Luigi, dove mamma e papà erano lieti di avere ospiti i compagni del loro figliolo. Mangiavamo (e bevevamo…) in due stanze contigue perché eravamo troppi per stare in una stanza sola. L’andata e il ritorno, su 500 e 600 che erano veri e propri miracoli viventi, erano sempre avventurose, specie il ritorno. La casa di don Luigi era una casa accogliente perché i suoi genitori lo erano e lui l’aveva imparato dai suoi, così come i suoi fratelli e sorelle. Certamente contava i carattere emiliano ed anche l’esperienza di una famiglia numerosa che ti insegna che c’è sempre un piatto che si può aggiungere se qualcuno arriva all’improvviso o ne ha bisogno.

Il seminario interdiocesano è stata un’esperienza che può essere vista in modi molto diversi. Personalmente la ricordo come gli anni più belli della mia vita, perché c’era un grande fervore di studio, di attività, di speranze. Si viveva quello che era il ’68. si aveva una gran voglia di fare e di vedere una Chiesa diversa da come era allora: una Chiesa come il Concilio appena terminato aveva delineato, spiazzando molte sicurezze acquisite. Per questo il primo anno di teologia (l’anno propedeutico) lo avevano fatto a Rivoli, presso Torino, un po’ tutte le diocesi del Piemonte ed alcuni seminaristi di istituti religiosi, perché nelle diverse diocesi probabilmente nessuno era pronto a innovare gli studi seminaristici. A Torino avevamo trovato giovani insegnanti freschi di laurea delle più prestigiose università europee (Ferretti, Ghiberti, Ardusso), e l’aggiornamento (parola magica di allora) era garantito. Esso era poi continuato nel nostro seminario interdiocesano, un tentativo coraggioso, ed anche qui con i migliori insegnanti sul più ristretto mercato delle tra diocesi, comunque nomi di tutto prestigio. Luigi condivideva con noi la fatica dello studio e qualcuno lo aiutava studiando insieme (cosa che era una novità). Io avevo il compito di fare le dispense di qualche materia di cui mancavano i testi. Allora il ciclostile in cui si infilava un foglio alla volta per stamparlo lavorava giorno e notte (quelli che si prendevano i fogli da soli erano ancora un sogno per noi).

Condividevamo con Luigi la sua attenzione ai poveri, a cui era per natura sensibile. La svolta avvenne attraverso l’incontro con l’Operazione Mato Grosso, che don Ugo de Censis, salesiano di Arese, aveva appena fondato. Si può dire che il nostro seminario divenne ben presto la succursale vercellesi dell’Operazione. Questo comportava l’ingresso di persone diverse dai seminaristi, di giovani uomini e donne animati dallo stesso desiderio di aiutare i meno fortunati. C’era chi era più portato a teorizzare (allora andava per la maggiore don Giulio Girardi, che per noi faceva abbastanza testo su queste questioni) e chi a lavorare. Lavorare voleva dire raccogliere carta per finanziare le prime spedizioni dell’Operazione, spedizioni che presto coinvolsero anche i seminaristi. Il primo a partire fu Gianni Settia, diacono di Saluggia. Rimase in Bolivia quasi un anno e vi morì in un incidente stradale. Fu sepolto là per volontà della gente del posto e con il consenso della famiglia ed è tutt’oggi ricordato e amato, come mi attesta chi è stato recentemente alla sua tomba. Poi Gianmario, Mario, Pia, Silvano… i partenti, per i quali quelli che restavano lavoravano nei momenti di tempo libero. E infine Luigi. Lui partì da prete appena ordinato (era stato ordinato dal Papa a Roma nel mese di maggio o inizio giugno insieme ad altri 200 diaconi di tutto il mondo, perché mi pare fosse il 50° di sacerdozio di Paolo VI). Era il 1970. il seminario, che aveva accompagnato don Luigi a Roma per la sua ordinazione, continuò a fare il tifo per lui sostenendolo come era possibile. Luigi andò in Brasile, a Campogrande, in un lebbrosario. Vi stette oltre un anno e ci sarebbe forse rimasto tutta la vita ma dal Vescovo giunse l’invito a ritornare in diocesi. Don Luigi non sapeva una parola di portoghese ma si fece ben capire dagli ospiti del lebbrosario, parlando un po’ in italiano, in po’ il suo dialetto emiliano, un po’ di vercellesi e quelle quattro parole che aveva nel frattempo imparato. Ma c’era un linguaggio che tutti potevano capire, ed era il servizio e l’amore: sono lingua universale.

Don Luigi ritorna e viene mandato come vice parroco nella nuova parrocchia dell’Aravecchia, intitolata a San Pietro Apostolo, insieme a don Carlo Borghesani. Siamo nell’autunno del 1971. la sua scelta è a dir poco sorprendente. Affitta dal Comune una stanzetta a pian terreno in uno dei due cortili del “casermone”, un edificio un tempo caserma, con due gradi cortili, i pontili sui tre piani e una fontana in cortile, abitato da moltissime famiglie povere, tanti bambini, qualche anziano solo. Don Luigi sulle prime doveva essere stato considerato un po’ matto. In quell’unica stanza una branda, un tavolo, delle sedie e un lavandino con un fornello. La gente lo guarda con sospetto e curiosità e lui comincia a incontrarli e ad ascoltarli. Ha da raccontare quello che ha visto e vissuto in lebbrosario ma è sempre molto attento ai bisogni delle persone che ha intorno in quel momento. Così comincia a nascere un gruppo di persone, credo irripetibile, fatto da povera gente che andava da don Luigi per mangiare, e da giovani della città attratti da questa figura di prete del tutto fuori dagli schemi di allora. Tra questi c’era anche don Mauro Stragiotti, che troppo presto ci ha lasciati. E si comincia così con le diapositive sul lebbrosario, la raccolta della carta, i campi di lavoro, il recital con canti, scritti e musicati da ragazzi di talento accompagnati da don Luigi che portava la sua testimonianza e riusciva a toccare anche i cuori più induriti. Era bello, tanto che verrebbe voglia di sentirli cantare ancora. Furono anni belli, di grande entusiasmo e attività. Il casermone fu ritinteggiato su richiesta di don Luigi dai suoi ragazzi, il Comune fornì la tinta. Le figure che don Luigi raccolse intorno a sé sono rimaste mitiche per chi le ha conosciute: l’Ugo, il Gatto, il Maestro, il Pietro, lo zio … e poi i ragazzi più giovani, e Domenico, e Mariuccia e altri che la legge Basaglia, così come venne applicata, aveva “dimesso” dall’OPN. Trovarono casa e affetto in quella grande compagnia di persone che ruotava attorno a don Luigi. Per i suoi ragazzi egli riusciva a trovare alloggi nel Casermone, che nel frattempo si andava svuotando per lo spostamento di molte famiglie in case popolari altrove. Ci fu un tempo in cui si diceva che il vero padrone del Casermone era don Luigi. Aveva trovato casa per tutti, anche per chi veniva a chiedergli una mano. Ma don Luigi aveva un sogno nel cuore: una casa nuova per i suoi ragazzi e una Chiesa nuova per il Signore. Se teniamo conto che finora don Luigi era vissuto di carità, cioè di quello che la gente gli dava, in denaro o in natura, pensare di costruire una casa della comunità era un’idea che solo lui poteva concepire e realizzare. Ricordo qualche volta, in estate, di essere andato anch’io al mercato di Corso San Martino il sabato sera a recuperare un po’ di frutta e verdura, diciamo di terza scelta. Perché si viveva così: minestra, ali e zampe di pollo quando andava bene, funghi quando era la stagione (famigliole, J’urgini  per intenderci), pesci del Sesia, prodotti dell’orto quando ce n’era in abbondanza e gli ortolani portavano un po’ di roba. Il fatto che ce l’abbia fatta resta un miracolo della Provvidenza, non si può spiegare diversamente. E infatti venne acquistato il terreno, una porzione del grande prato che fiancheggiava lo stabilimento della Sambonet. Dalla fabbrica a Corso Avogadro era un unico prato costellato di orti e con una piccola roggia nel mezzo. Lo si attraversava agevolmente a piedi o in bicicletta su un sentiero che incrociava la roggia su un ponticello, ove ore c’è l’angolo tra Via Zambeccari e Via Baracca. Lì si cominciò col piantare una grande croce, che c’è ancora, all’inizio della salita verso la chiesa. Si avviarono i lavori. Poco alla volta la casa prendeva forma, secondo un progetto che don Luigi in persona aveva pensato, avendo in mente anche la futura chiesa. La casa, ci diceva, doveva essere bella e piena di luce, arredata bene perché i suoi abitanti avevano visto per lo più nella loro vita solo luoghi squallidi e bui. Infatti ancora oggi i mobili della sala da pranzo e di altre parti comuni sono mobili di pregio, ricevuti in dono o recuperati nel lavoro di sgombero case e cantine e sapientemente restaurati da alcuni dei ragazzi che stavano imparando quel lavoro da esperti del mestiere. Le cose più belle non venivano vendute , nonostante il bisogno di soldi per terminare l’opera, ma tenute in casa. E il miracolo fu compiuto, la casa venne inaugurata e abitata prima ancora che fosse del tutto finita. Ricordo i giorni del trasloco: un interminabile andirivieni tra il cortile del Casermone e la nuova sede, non lontana nello spazio ma neppure nello spirito che la animava.

La chiesa continuava ad essere la chiesetta degli inizi, proprietà del Comune, data in uso prima ai padri Domenicani, da cui l’Aravecchia dipendeva come territorio parrocchiale, e poi alla nuova parrocchia di S. Pietro Apostolo. Don Luigi l’aveva tinteggiata, abbellita, ripulita e l’aveva resa decorosa. Essa è stata testimone per anni di tutte le attività che vi si svolgevano: Messe, funerali, matrimoni, battesimi, veglie di preghiera, comunioni e cresime dei tanti ragazzi del quartiere e anche di fuori. Chi pensa che don Luigi ( che dopo un paio d’anni era diventato parroco per il trasferimento di don Carlo Borghesani) si dedicasse tutto ai ragazzi e quindi non avesse tempo per conoscere i suoi parrocchiani si sbaglia di grosso. Lui sapeva tutto di tutti. Ricostruiva mentalmente parentele, posti di lavoro. Occasioni in cui ci si era visti o sentiti con una chiarezza che mi ha sempre stupito. E di gente ne conosceva tanta, ogni giorno sempre di nuova. Evidentemente le persone, una volta incontrate, entravano nel suo cuore e di là non uscivano più. Sui fatti che riguardavano le persone era molto riservato, conosceva cose che le persone avevano detto solo a lui e nessun altro le ha mai sapute. Se si trattava di una persona di cui non poteva dire di più chiedeva di fidarsi e basta.

Conosceva tanta gente anche perché andava a cercarla: prima la visita alle camere mortuarie dell’ospedale a dire una preghiera per i morti della notte e una parola di conforto ai parenti, poi ai molti malati che da lui ricevevano i sacramenti lo rese una delle persone più conosciute dell’ospedale. Accompagnandolo qualche volta in questo giro era impossibile fare dieci passi in un qualunque corridoio senza sentire un saluto per lui o da parte sua per qualcuno, malati, medici, personale. Aveva un’enorme capacità di comprendere la sofferenza umana perché aveva sofferto anche lui e ne aveva vista tanta in lebbrosario. Ma già prima del Brasile era così.

Il don Luigi che abbiamo presente tutti, barba grigia sempre più simile a quella dei patriarchi della Bibbia e zoccoli di legno ai piedi, non era sempre stato così. All’arrivo dal Brasile la barba non c’era. Pochi se lo ricordano senza. Gli zoccoli c’erano già e sono rimasti sempre, perché probabilmente così si vestiva in lebbrosario, con la camicia fuori dai pantaloni, in maniera del tutto semplice e naturale e che tuttavia non mancava di suscitare qualche critica da parte di qualche anima scontenta, che non potendo criticare altro criticava il modo di vestire). Don Luigi si rivolgeva abitualmente a tutti dando del “tu”. Ricordo di essere stato presente a telefonate fatte alle persone più svariate in cui il saluto per tutti era “ciao, come stai? Ti auguro una buona giornata”. Alle persone si rivolgeva spesso chiamandole affettuosamente “nani”, come quando noi ci rivolgiamo a un bambino chiamandolo “gioia”. Oppure usava il suo dialetto emiliano con le espressioni “al me ragas” o “al me belo”, che corrispondono un po’ al nostro “caro mio”. Se voleva sottolineare una cosa detta usava “a tel digh me”, altra espressione dialettale tanto simpatica.

All’Aravecchia una presenza forse più antica di quella dello stesso don Luigi era quella delle suore di Loreto con suor Gisella, che lui aveva ribattezzato “zia” e dalla quale era chiamato “al me nvudin”. Suor Gisella girava fra le famiglie come infermiera. Aveva nel Casermone una o due stanze che servivano da ambulatorio per la gente del rione. Lo chiamava “al me negosi” e andò avanti per anni e anni a svolgere questo servizio. Anche lei conosceva tutte le famiglie del rione. Diverse suore di Loreto si alternarono all’Aravecchia. Ricordo suor Luigia quando ancora non c’era la casa, ma soprattutto suor Fernanda, donna di grandi capacità e con una umanità molto vicina a quella di don Luigi. Rimase all’Aravecchia per molti anni, in due periodi di tempo successivi, aiutando grandemente l’opera di don Luigi. Con lei si alternarono tante altre suore fino a suor Rosalia che accompagnò il passaggio dalla presenza di don Luigi al periodo dopo la sua morte e che tuttora è lì a servire la gente della comunità, della parrocchia e del rione. Una presenza di cui essere grati al Signore, e don Luigi certamente lo fù.

 

Fatta la casa e la prima cooperativa di lavoro (prima nel garage di una casa ospitale poi nei locali sottostanti la comunità e infine, oggi, presso la Cascina Pensotti) per dare lavoro ai ragazzi e a chi era sfortunato anche fuori del gruppo degli abitanti la casa, restava il sogno della Chiesa. Credo che don Luigi l’abbia sognata tante volte e poi l’abbia spiegata a qualcuno che la traducesse in progetti, disegni, idee, suggerimenti. A differenza della casa, la Chiesa fu in parte sostenuta dagli aiuti della Diocesi, nella persona dell’Arcivescovo mons. Albino Mensa che stimava don Luigi e la sua opera e ogni tanto si fermava a pranzare con i ragazzi dopo aver celebrato la Messa. Il progetto poco alla volta si concretizzò in quella che oggi è certamente una delle Chiese più curiose che si trovano in giro. Costruita con un raffinato gusto del bello (don Luigi amava la bellezza in tutte le sue espressioni: natura, arte, capacità umane, musica e se ne intendeva in una maniera stupefacente), la Chiesa dell’Aravecchia sorse in un sapiente incontro tra tra vecchio e nuovo, ma soprattutto secondo le idee che don Luigi voleva evidenziare: Dio, la sua grandezza e bellezza (il rosone con il roveto ardente), gli uomini in marcia verso Dio, che risplendono della Sua luce man mano che a Lui si avvicinano. San Pietro, a cui la parrocchia è dedicata, raffigurato all’ingresso della Chiesa nel passo degli Atti degli Apostoli nella guarigione dello storpio alla porta del tempio, e poi ancora nel grande riquadro di vetro che raffigura la risurrezione e nella bella statua lignea che lo rappresenta. Maria ha il suo angolo speciale insieme ai Raggi di Sole, la statua veniva dal vecchio Ospedale in cui era venerata come Madre della Misericordia. L’altare è enorme, un’unica lastra di pietra ricuperata alla Veneria di Lignina (forse il fondo di un grande abbeveratoio per le bestie) e trasportata fin lì tra mille difficoltà. Colonne piccole e grandi, ricuperate chissà dove, segnano il profilo dell’altare e delle sedi, ricavate in quella grande costruzione in legno di rovere scuro, che ha alle spalle una storia quasi incredibile. Si tratta di legname ricuperato durante il rifacimento del sottopasso del Canale Cavour sotto il fiume Sesia. Il che vuol dire che quelle assi erano state più di cento anni nell’acqua. Don Luigi è riuscito a farsele dare, ha scelto le più belle e ne ha fatto quel che oggi si vede. Inserito in esso il tabernacolo con le parole dell’ultima cena. In fondo alla chiesa il Battistero, ricavato da una macina di mulino in pietra e circondato pannelli in bronzo che richiamano temi biblici legati all’acqua e al Battesimo. I banchi ricuperati un po’ da Chiese chiuse e un po’ da Chiese che li avevano sostituiti. Alle pareti alcune raffigurazioni di santi particolarmente cari a don Luigi, tutti rivolti verso il roveto ardente.

Don Luigi era fiero della sua Chiesa ed aveva ragione. È molto bella e rispecchia in tutto la sua spiritualità. Lo stesso possiamo dire della cripta, usata per le messe feriali, con la ricostruzione di un’abside in mattoni antichi e un piccolo altare composto da pezzi con una lunga storia alle spalle. Un pittore rumeno di passaggio aveva affrescato, in tre riquadri, la Trinità (di Rubliev), una Madonna che porta in grembo e dona il bambino Gesù, e una complessa raffigurazione del cammino della vita (che riprende quello delle figure in cammino verso Dio).

La chiesa non è nascosta rispetto alla casa anzi, ne è il cuore. L’idea di don Luigi era che la casa circondasse il cortile che fa da sagrato alla chiesa, così che gli ospiti non ne fossero estranei ma coinvolti: tutte le stanze guardano sul cortile e il tutto rappresenta un complesso armonico di grande bellezza. Accanto alla chiesa, un campanile stilizzato, con campane ricuperate da chiese dimesse. Così i sogni diventavano realtà e il giro di conoscenze sempre più grande, anche per l’altra grande intuizione di don Luigi, quella dei “Raggi di Sole”. Don Luigi me ne parlava all’inizio facendomi presente il rischio concreto che le famiglie toccate dalla morte di figli in giovane età si allontanassero da Dio per finire poi in mano a medium o a persone senza scrupoli che le avrebbero illuse senza dare loro alcuna pace vera, spillando loro molti soldi. Così don Luigi si fa vicino alle famiglie colme di amarezza ,dolore, rabbia e disperazione. Con la sua fede profonda e la sua capacità di recare conforto raccoglie prima decine poi centinaia di famiglie, anche molto lontane, che si incontravano periodicamente per scambiarsi le loro tristi esperienze di morte e per ascoltare da don Luigi la parola di vita del Vangelo. A mio avviso, se il lavoro con i ragazzi della comunità è stata una grande opera, tutta poggiata sulla sua figura ricca di carisma e di doni dall’Alto, a maggior ragione lo si può dire delle famiglie dei Raggi di Sole, le cui fotografie cominciarono a circondare la statua di Maria, nell’angolo della chiesa, sempre più numerose. Da lì nasce anche l’idea della “Campana della vita”, un’enorme campana fusa apposta per questo scopo, portata fino a Roma durante il giubileo del 2000 e benedetta da Giovanni Paolo II e poi sistemata in un anfiteatro creato apposta, con un altare e un angelo che dall’alto veglia sui Raggi di Sole. Fa da sfondo una grande vigna in bronzo sulle cui foglie sono incisi i nomi di alcuni Raggi di Sole. Il tutto circondato da un grande prato fiorito. Il complesso venne inaugurato dal Padre Arcivescovo Enrico Masseroni nella primavera del 2004 con grande partecipazione di gente, con numerosi sacerdoti.

Don Luigi ha aiutato tante persone a vivere ma anche tante a morire accanto ai malati più gravi, ai moribondi(anche a molti confratelli morenti) c’era don Luigi che perdonava, consolava, pregava con loro e per loro fini a chiuderne gli occhi. Se si trattava dei sui ragazzi li lavava e li vestiva lui stesso.

Negli ultimi anni era stanco, i ritmi diventavano forsennati, erano sempre di più le persone che lo cercavano, le incombenze burocratiche sempre più pesanti, anche se non mancava chi lo aiutava a svolgerle. Ricordo di averlo visto più volte in cucina a bruciare le ali di pollo prima di cucinarle o a tagliare e disossare la carne, memore del suo lavoro di macellaio prima dell’ingresso in seminario. Credo che l’idea della pastorale del turismo, l’ultima sua creazione, sia nata un po’ come tentativo di evadere, per uno o pochi giorni, dal suo mondo divenuto pesante. Nascono così le gite, i pellegrinaggi, i soggiorni a Rimini e alle terme in terra campana. Don Luigi ne usciva rigenerato e la gente era contenta perché si pregava, si ammiravano cose belle, ci si confidava, si rideva e si scherzava.

A volte, passando a trovarlo, mi diceva della sua stanchezza e che sarebbe stato disposto a ritirarsi a Rongio lasciando tutto a qualcun altro. Io gli suggerivo di cercare una famiglia che lo aiutasse, magari chiedendola all’Operazione Mato Grosso, a cui lui e la chiesa vercellese avevano dato tanto o di cercare un diacono permanente se non era possibile trovare un prete che lo supportasse (purtroppo il numero dei sacerdoti va sempre diminuendo mentre aumenta il numero dei preti anziani). Cercavo di aiutarlo come potevo, sostituendolo tutte le volte che c’era bisogno. Negli ultimi anni soffriva di sonnolenza invincibile durante il giorno e cattiva qualità del sonno durante la notte. Ricordo una riunione serale durante la quale don Luigi aveva sempre dormito, sfinito dal sonno ed era poi stato preso sotto braccio da due ragazzi e condotto a letto. Ci volle un po’ a capire che si trattava di un problema di respirazione che causava le apnee notturne. Nel tempo questo problema aveva affaticato il cuore doveva perciò dormine con una maschera che fornisse l’ossigeno necessario per una respirazione corretta e un sonno tranquillo. Si adattò a questo marchingegno e sembrava che si fosse così risolto quel suo grave malessere. Cominciò così a interessarsi un po’ della sua salute, cosa che prima non aveva mai fatto. Faceva perciò dei controlli periodici a Veruno, dove era rimasto per una decina di giorni anche nel novembre 2006. Non era emerso nulla di preoccupante. Delle tante cose fatte da don Luigi bisogna ricordare anche il ripristino della tomba dei sacerdoti nel camposanto di Vercelli. Lì sono stati deposti i resti di molti preti, soprattutto dell’800, che credo siano stati rinvenuti in Duomo nel corso dei lavori, o che erano seppelliti altrove e sono stati raccolti insieme in maniera dignitosa. Perché don Luigi voleva bene ai suoi confratelli e ne aveva venerazione. In un’altra tomba, lasciatagli dalla famiglia Picco, egli ha potuto dare onorevole sepoltura a tanti dei suoi ragazzi prematuramente scomparsi e ad altre persone che, probabilmente,  non avrebbero avuto un posto altrimenti. La sua attenzione andava anche oltre la morte e voleva che le tombe fossero sempre pulite e che un fiore testimoniasse il ricordo.

Egli ha voluto essere sepolto con i suoi genitori e sua sorella nel piccolo cimitero di Rongio, località che amava in maniera del tutto speciale. Aveva rappresentato, per don Luigi, un posto di lavoro per alcuni dei suoi ragazzi, un posto dove trascorrere qualche ora serena specialmente d’estate, e un posto dove mettere a frutto il suo genio creativo a gloria di Dio. Da un lascito iniziale di una casa e di un terreno in località Molin Camillo, proprio a fianco del torrente Bisingana, e successivi acquisti e lasciti degli stabili adiacenti, venne a formarsi un complesso di grande bellezza. La legnaia fu trasformata in una chiesetta molto suggestiva e resa ancor più bella dagli affreschi dell’amico Giuseppe Papetti, noto autore di icone. Questa chiesetta  è il punto di arrivo di un altro cammino che si snoda attraverso il grande prato circostante e dove sorge la “Via della Croce”, una suggestiva e moderna Via Crucis che don Luigi realizzò con la collaborazione di artisti contemporanei. Ne risulta un complesso di non facile lettura ma molto suggestivo quando viene spiegato, e un tragitto che, anche per la bellezza dei luoghi, aiuta a entrare nella preghiera. A Rongio il lavoro era sempre tanto e il complesso venne realizzato con la collaborazione di molti. I ragazzi che risiedevano lì avevano animali da accudire, un bosco da tenere in ordine e tante altre incombenze perché il posto fosse sempre bello e ordinato. In basso, vicino al torrente, don Luigi fece costruire un anfiteatro a gradoni dove spesso, in estate, veniva celebrata la Messa, le cui parole si univano alla voce del torrente. Insieme al riordino di un camposanto abbandonato lì vicino, don Luigi ha lasciato al Molin Camillo un segno della sua fede e della sua iniziativa, insieme a un pezzo del suo cuore.

Un altro luogo caro a don Luigi è stato il Molinetto di Tronzano , una minuscola parrocchia dove, fino agli anni ’80 – ’90 era prete don Emiliano Menara, di cui don Luigi era amico. Alla sua morte la casa parrocchiale e la chiesa furono dato in uso alla comunità dell’Aravecchia. Rimesse in sesto, insieme al giardino antistante, don Luigi vi impiantò un’altra attività per alcuni dei suoi ragazzi, un allevamento di polli, da consumare o da vendere secondo le necessità.

In tutte queste sue attività don Luigi aveva nel cuore due preoccupazioni: dare gloria a Dio e far lavorare i ragazzi della comunità, sapendo che il lavoro serviva loro a ritrovare la stima di sé, a tenerli occupati e fuori dai guai e dalle tentazioni, a farli sentire utili a sé e agli altri. Questa pedagogia del lavoro è stata una delle intuizioni di don Luigi fin dall’inizio ed è stata l’arma vincente per molti ragazzi che hanno visto la loro vita cambiare grazie al lavoro e all’amore con cui erano seguiti e che oggi sono padri di famiglie serene, uno dei frutti più belli dell’opera di don Luigi.

Non tutti i ragazzi sono finiti bene. Di parecchi don Luigi ha dovuto celebrare il funerale con il cuore spezzato dal dolore, ma con la consapevolezza di aver offerto loro tutto quanto umanamente si potesse offrire. Anche con i suoi figli don Luigi non dimenticava di essere anzitutto un prete e molti di loro hanno scoperto o riscoperto la fede proprio grazie all’incontro con il “Don” o il “Padre”, come veniva affettuosamente chiamato.

Don Luigi amava pregare con la gente in qualunque occasione ma era soprattutto la celebrazione della Messa che egli curava come momento di riflessione e preghiera per tutti. Le Messe celebrate per i Raggi di Sole erano commoventi e coinvolgenti. Il Triduo Pasquale era curato e seguiva l’uso del gruppo neocatecumenale che si era venuto formando nella parrocchia e che ora utilizza la chiesetta un tempo sede della parrocchia nei primi anni. Ogni messa di sepoltura era un’occasione per parlare al cuore dei presenti. Si era creato una sua personale liturgia delle esequie. Non che amasse le stravaganze, non era affatto stravagante ma molto bella e umana. Ultimamente aveva trovato da qualche parte una poesia alla mamma e per tutte le mamme che accompagnava al camposanto leggeva questa poesia come se nascesse in quel momento dal suo cuore. Quando celebrava, il tempo era una variabile poco importante. Le S. Messe festive duravano oltre un’ora e la gente lo sapeva ma ci andava perché amava questa preghiera profonda, fatta bene, prolungata, toccante. Don Luigi era, nei suoi ultimi anni, nella disposizione d’animo del vecchio apostolo Giovanni ad Efeso: un patriarca che aveva visto e sentito in vita sua cose grandi e belle e cose terribili e dolorose e che aveva sintetizzato tutto in poche frasi, che diceva e ripeteva ma che non perdevano mai freschezza e senso perché dette da lui. Giovanni era arrivato alla sintesi del “Dio è amore e del comandamento nuovo di Gesù “amatevi come io ho amato voi”. E don Luigi continuava a ripetere queste parole nelle omelie, nei discorsi a tu per tu, nell’incoraggiare chi era nel dolore. Non sapremo mai quanto bene abbia fatto don Luigi Longhi. Lo sanno le migliaia di persone che da lui hanno ricevuto tanto, a volte tutto. Per me un prete così non può che essere definito Santo, anche se nessuno inizierà mai il processo canonico di riconoscimento delle sue speciali virtù. Forse lui stesso non ci terrebbe molto, dal momento che ha vissuto tutta la sua vita il più possibile nell’ombra, in quei 36 anni passati all’Aravecchia. È vero, ci sono preti che hanno trascorso molti più anni di lui in una stessa parrocchia ed hanno visto passare due, tre generazioni di persone. Don Luigi ha visto passare un paio di generazioni di figli, figli di Dio e figli suoi, per i quali ha materialmente dato la sua vita. Sia benedetto il Signore che ci ha dato la grazia di averlo incontrato e conosciuto.

Vercelli, 2010

                                                                                 Don Massimo Bracchi