storia dell’Associazione

Appunti per una nostra storia

Parlare della nostra associazione vuol dire parlare di don Luigi Longhi. Senza di lui non ci saremmo neanche noi. Don Massimo Bracchi era vicino a don Luigi da molto prima che nascesse l'associazione. Ed era al fianco di don Luigi quando l'associazione nacque e ne è stato parte fin da allora. Per questo abbiamo chiesto a lui di scrivere il primo contributo in questo senso.

Era davvero un grande imprenditore, don Luigi, come lo definì Massimo Gramellini nel suo breve articolo apparso su “La Stampa” di Torino nei giorni della sua morte. Un imprenditore che si occupava non delle cose, ma degli uomini. Le cose servivano in quanto potevano dare delle risposte a necessità molto concrete degli uomini attorno a lui, vicini o lontani, e solo per questo. E tra gli uomini aveva scelto i più poveri, i più disgraziati, quelli che non avevano niente e nessuno, neppure una ragione per vivere. Ospedali psichiatrici chiusi e malati posti in mezzo a una strada? Li prendeva con sé, li curava, li faceva sentire finalmente persone, persone importanti in mezzo agli altri che erano con lui. E loro lo ricambiavano con il loro affetto totale e la loro dedizione. Come aveva sempre fatto, fin dalla sua permanenza nel lebbrosario di Poxoreu in Brasile. Un  anno e mezzo in mezzo a loro, e ci sarebbe rimasto per tutta la vita; poi il Vescovo lo richiama in diocesi, e don Luigi che ritorna, con dispiacere, e viene mandato nella nuova Parrocchia di San Pietro nel 1971, in quella parrocchia dove, in 36 anni di servizio, diventerà il grande imprenditore della bontà, dell’accoglienza, del lavoro continuo e silenzioso.
Non ha mai fatto clamore attorno a sé e ai suoi ragazzi, don Luigi. Le cose le faceva ma non andava a sbandierarle a nessuno. Solo chi lo aiutava a disbrigare pratiche,  pagamenti e prospettive, e a risolvere grane sa quante cose buone ha fatto don Luigi.
A partire dalla stanzetta a piano terreno del Casermone, ingresso di destra, fino alla casa nuova per i suoi ragazzi, e alla Chiesa nuova, come lui l’aveva sognata, quella per il suo Dio, che lo accompagnava in ogni sua opera.
Il suo rapporto con le cose, con i soldi, con le donazioni e le eredità che via via si ritrovava ad avere e a ricevere da persone che ne avevano capito lo stile, era molto semplice: un grande grazie ai donatori, e poi a pagare debiti (suoi, cioè della casa, o per i suoi ragazzi). Don Luigi ha visto passare dalle sue mani una cifra di denaro impressionante, certamente diversi miliardi di vecchie lire, che sono serviti per costruire la casa e, in parte, la Chiesa, e permettere alla Comunità di vivere. Neppure una di queste lire è rimasta attaccata alle sue mani. Don Luigi è morto povero, come povero ha sempre vissuto. Nella sua stanza conservava quelle che per lui erano le cose più preziose: le reliquie dei santi, conservate nei reliquiari ricuperati qua e là in vecchie chiese, e, che io sappia, un piccolo diamante grezzo, che un cercatore, un ”garimpeiro”, tra i poveri in Brasile aveva voluto a tutti i costi che accettasse come segno di ringraziamento, e lui lo aveva sempre conservato come la reliquia più preziosa.
Naturalmente, a mano a mano che il giro di cose da fare, persone da ascoltare, da consolare, da indirizzare verso il bene aumentava, il suo tempo per seguire l’amministrazione della casa e di tutto il resto mancava; ed ecco allora che nasce l’Associazione don Luigi ONLUS. Ricordo di essere stato da un notaio dalle parti Piazza Zumaglini per la pratica necessaria, insieme ad altre persone, alcune delle quali sono già passate oltre. L’Associazione divenne così il salvadanaio dove venivano messi i soldi e le donazioni ricevute, ed insieme l’ente che pagava i debiti piccoli o grandi che a mano a mano don Luigi contraeva, non senza aver ascoltato il parere del comitato direttivo. Poi in realtà faceva come gli sembrava giusto, e questo il Comitato lo sapeva già in partenza. Se gli si muoveva qualche obiezione sulle spese, la risposta più comune era che la Provvidenza avrebbe appunto provveduto, e in questo don Luigi non venne mai smentito. Ricordo che, quando passavo a trovarlo e gli lasciavo qualcosa, più di una volta mi diceva “Questo servirà a pagare un po’ di pane”, perché è vero che la Provvidenza provvedeva, ma bisognava ogni tanto darle qualche aiutino. Ricordo la sua busta di carta che teneva nel taschino del camiciotto perennemente fuori dalla cintura, come probabilmente lo portava in lebbrosario, e come lo porterà per tutta la vita insieme agli zoccoli di legno. La busta di carta poteva contenere poche migliaia di lire, come anche somme più consistenti.
Lì tutto metteva e da lì tirava fuori il necessario per le mille richieste di cose necessarie per i suoi ragazzi e per i tanti poveri che bussavano alla sua porta. Credo che l’Associazione si sia occupata e continui ad occuparsi delle cifre grandi; quelle più piccole, diciamo minute (pocket money dei suoi ragazzi) venivano date senza pubblicità e in silenzio, con la raccomandazione costante di spenderle bene e di fare economia. Don Luigi le scriveva tutte (non so quando e come trovasse il tempo per farlo) e le riportava su un quaderno dove per ognuno dei suoi ragazzi c’erano le entrate (da pensione, da lavoro, da invalidità…) e le uscite, quelle che appunto venivano dalla famosa busta di carta, vero crocevia di scambi commerciali, come le Borse più quotate. Così era per i denari della Chiesa: lì diverse persone lo aiutavano. Io ricordo Carla (Zanlungo) sempre impegnata a tenere il bilancio della casa con estrema precisione, dove la voce “povero di passaggio”, seguita da una cifra, era una di quelle che ricorrevano più spesso. Dopo di lei altri impararono a fare la stessa cosa, perché lui aveva troppe altre cose da fare.
Anche perché le località in cui don Luigi era chiamato in causa erano svariate. Una era il gioiello del Molin Camillo di Rongio, dove oggi vivono alcune persone stabilmente, coltivando la campagna e allevando bestiame. Era uno dei posti che don Luigi amava di più, questo è dimostrato dalle cose che lì ha realizzato, perché fosse per chiunque un posto che parlava del Signore, incastonato in un paesaggio collinare di grande bellezza. E come aveva realizzato il sogno di una Chiesa fatta come voleva lui, così realizzò anche il sogno di rendere quel posto come una specie di Sacro Monte del XX secolo, coinvolgendo artisti vicini e lontani per realizzare la Via Crucis, già una ventina di anni fa, e, in questo 2014, la Via Lucis, inaugurata nel settembre di questo anno. Inoltre aveva pensato di trasformare quella che un tempo era forse una legnaia in una piccola chiesetta, completamente affrescata dentro e fuori dal noto pittore di icone Papetti. Don Luigi avrebbe voluto trascorrere i suoi ultimi anni al Molin Camillo: lo diceva spesso, e ultimamente, sentendosi stanco e non più capace a reggere la fatica di ogni giorno, diceva che lui sarebbe andato volentieri a fare il Parroco di Curino, lasciando il resto a chi potesse portarlo avanti. Purtroppo questo suo desiderio non si potè realizzare per l’improvviso insorgere della malattia che lo portò alla tomba; in compenso don Luigi è sepolto nel piccolo camposanto di Rongio, insieme al papà, alla mamma e alla sua sorella maggiore. Almeno in morte è potuto tornare in mezzo a queste dolci colline che amava tanto, accanto al Molin Camillo e non distante dalla casa dei suoi, dove è cresciuto e dove ha vissuto i momenti in cui poteva lasciare i suoi ragazzi  per qualche ora o giorno.  
Poi c’è il Molinetto di Tronzano, un  Santuarietto con tre case intorno, in mezzo alle risaie. Lì era Parroco un anziano sacerdote di cui don Luigi era amico e un po’ custode, don Emiliano Menara. Alla sua morte, don Luigi ottenne di potersene prendere cura, e ne fece un altro angolo dello spirito, rimettendo a nuovo e con cura tutto ciò che vi era, dentro e fuori la Chiesa. Per un certo periodo di tempo alcuni ragazzi della Comunità hanno vissuto al Molinetto, dove era in piedi un allevamento di pollame. La cosa ha avuto un termine (attorno al 2007) anche per un furioso temporale che ha rovinato un po’ tutte le strutture che erano state fatte per tale allevamento.
Ma se i bisogni si manifestavano altrove, allora si andava anche altrove. In questi ultimi anni della sua vita, ricordo due suoi viaggi in Thailandia, per aiutare a progettare un orfanotrofio o casa del giovane che un signore del milanese, credo, voleva costruire laggiù, Aveva chiesto a don Luigi, certamente dopo aver visto la sua casa in città, che lo aiutasse a fare qualcosa di simile laggiù. Ed ecco i due viaggi in terre lontane, con lo scopo di sempre: fare un po’ di bene per chi ne aveva più bisogno.
L’Associazione, dopo la morte di don Luigi, ha cercato di tenere in piedi quello che aveva fatto con fatica nella sua vita tutta dedicata agli altri. Ci sono stati anni non facili subito dopo la sua morte, sia per la sensazione di orfanaggio che tutti sentivamo dentro, sia perché ci voleva qualcuno che provasse a fare andare le cose come andavano con lui presente, il che era molto difficile.
Dopo un anno circa di permanenza, i tre giovani (Paolo, Mattia e Alberto) dell’Arsenale della Pace di Torino, fondato da Ernesto Olivero negli anni ’60,  che avevano tentato di assumere  il ruolo e i compiti di don Luigi su incarico del Vescovo Padre Masseroni, rinunciarono a proseguire e tornarono a Torino. Bisogna dire che hanno avuto il coraggio di provarci, e che sono rimasti amici, anche se non li si vede più spesso.
Da allora l’Associazione, chiesto e ottenuto dal Vescovo il compito di portare avanti quello che don Luigi aveva fatto in vita, ha lavorato e continua a operare perché lo spirito che ha animato don Luigi possa in qualche modo continuare nel tempo, nel cuore e nei ricordi di quanti lo hanno conosciuto e di quanti gli hanno voluto bene.  
                                                           



Don Luigi era un uomo d’azione. Sapeva bene che il lavoro dà dignità all’uomo, ed è la strada maestra anche per il recupero di quelli caduti nei mille drammi e inganni del mondo di oggi. Per cui cercò molto presto di creare lavoro attorno a sé. Anzitutto il  lavoro della raccolta di ferro, stracci e carta per i suoi poveri del lebbrosario, che era partito praticamente con il suo arrivo all’Aravecchia, come forma di autofinanziamento (oggi non sarebbe più possibile, perché i Comuni si sono sostituiti in questa raccolta continuativa per cercare di risolvere il problema dello smaltimento rifiuti; ma così facendo hanno tolto la possibilità di farlo a decine e decine di persone, che col loro carrettino carico di cartone o di ferro, si guadagnavano onestamente quei quattro soldi per vivere. Poi magari se li bevevano, ma almeno lavoravano con dignità; oggi, nella nostra Italia dei burocrati, bisogna avere mezzo chilo di carte, permessi e licenze per andare a raccogliere e vendere un  quintale di cartone o di ferro essendo “in regola”). Unito a questo lavoro, nasceva il recital, che precedeva o accompagnava  la raccolta in ogni paese dove si andava a lavorare. Un recital molto bello, e che sarebbe meraviglioso poter replicare adesso, a distanza di quarant’anni dalle prime uscite. Parole e musica scritte dai ragazzi, talenti che emergevano per accompagnare un’opera di bene. Uomini e donne che hanno fatto la loro strada nella vita, perché hanno imparato in quegli anni il dono di sé e la responsabilità verso gli altri. Luciano, Bobo, Adriana, Mino, Claudia, Celestino, Nanni…e tanti altri ancora di cui ho perso il nome, non il ricordo.
Ma questo lavoro estemporaneo poteva sì diventare un lavoro vero (lo è ancora oggi per alcuni della Cooperativa), ma occorreva un lavoro che impegnasse più gente e che qualificasse un po’ anche i meno dotati. E si passa allora al primo tentativo di lavoro organizzato: nello scantinato di Emiliano, non distante da casa e Chiesa. Lavori di assemblaggio, come quelli che ancora oggi vengono svolti. Lavori dove contava la produzione, bisognava farne tanti; la qualità passava anche in second’ordine (penso alla composizione dei fiori di plastica). Poi, andando a svuotare alloggi e cantine, in mezzo a tante cianfrusaglie, ogni tanto veniva fuori qualche mobile di un certo pregio. Ed ecco allora nel sottochiesa/sottocasa, ammucchiarsi mobili, ed alcuni ragazzi imparare l’arte del restauro con l’aiuto di qualcuno che di queste cose se ne intendeva un poco. I mobili rimessi in sesto venivano poi venduti, e rappresentavano una delle fonti di finanziamento per la Comunità. I mobili erano vecchi, più che antichi. I più belli don Luigi li tenne per le parti comuni della casa, perché riteneva giusto che i suoi ragazzi, abituati a vivere dove di bello c’era poco, imparassero ad apprezzare e a rispettare anche le cose belle.
Oggi la Cooperativa, che attualmente ha sede nella vecchia Cascina Pensotti (un altro lascito a don Luigi) trasformata con un capannone accanto in vero e proprio luogo di lavoro, confeziona timer per la ditta ELBI e, nonostante la crisi di questi anni, è riuscita a mantenere abbastanza stabile il numero degli occupati. Qui il lavoro è diventato di precisione, perché il prodotto deve far funzionare alla perfezione delle macchine. Ma, a forza di fare le cose, tutti o quasi possono riuscirci. Ci lavorano alcuni dei “ragazzi”, ormai non più tali, e anche gente diversa, che lì trova quella possibilità di lavoro che altrove non troverebbe, soprattutto oggi. E’ un miracolo quotidiano che si riesca ad andare avanti oggi. Le occupazioni della cooperativa, nel tempo, sono anche un po’ mutate. Per qualche anno hanno vinto l’incarico di seppellitori nel Camposanto della Città; e un lavoro che invece si fa da sempre è quello dei traslochi (Giacomo, Pasquale e altri sono diventati abilissimi nello smontare e rimontare mobili: fanno sempre lavori ben fatti e puliti, a prezzi davvero interessanti. Provare per credere) che permettono di risolvere, a volte, problemi che sarebbero di difficile soluzione, nello stile di don Luigi: ricuperiamo una cucina qui, ma sappiamo che dobbiamo portarla là, dove una famiglia ne ha bisogno; e così per armadi, letti, cucine, frigo ecc. Potremmo dire che grazie a loro spesso la domanda (di chi ha poco o niente) e l’offerta (di chi ha troppo e vuole disfarsene) si incontrano felicemente.
Una parte della cascina Pensotti è stata per anni sede del dormitorio pubblico cittadino;  credo che il Comune ne pagasse un affitto e l’associazione Santa Teresa ne garantisse il funzionamento. Ma li si era sempre allo stretto, e perciò si sono cercate soluzioni nuove: In questo mese di novembre 2014 è stato inaugurato il nuovo dormitorio maschile in un braccio del Convento di Biliemme, che il Comune ha messo a disposizione con un  comodato trentennale, e la Caritas diocesana, insieme alla ditta Edil-GS ha sistemato con gusto e intelligenza, con una capacità ricettiva più ampia.
L’Associazione sta ora studiando come utilizzare gli spazi lasciati liberi dal dormitorio, e non mancano le idee, sempre cercando di pensare ed agire nella linea che avrebbe scelto don Luigi, se fosse qui oggi.
Per quanto riguarda il Molin Camillo, anche lì ci sarebbero idee per valorizzare davvero quella che è un’oasi di silenzio e di pace. La bellezza della natura, insieme alla bellezza dell’arte che lì si è espressa, potrebbero fare di questo luogo un ideale posto per una piccola casa di spiritualità, per giovani e adulti, e rientrare così in quella schiera di luoghi, piccoli e grandi, che vanno sotto il nome di “luoghi di turismo religioso”. Ma occorrono molte cose che per il momento non ci sono. Soprattutto manca qualcuno che possa garantire una presenza qualificata ogni giorno (in pratica, che abiti lì). Fino a che la Provvidenza non donerà una persona con questi talenti, il sogno bisognerà lasciarlo nel cassetto.
Così si cerca di portare avanti, da parte dell’Associazione, lo spirito e l’eredità spirituale di don Luigi, garantendo allo stesso tempo che i suoi luoghi siano conservati e adattati per scopi che potrebbero essere condivisi anche da lui. E  la presenza nella Associazione di alcune delle  sorelle e fratelli di Don Luigi sono una garanzia in questo senso.

(don Massimo Bracchi – Vercelli, 23/11/2014)